domenica 30 marzo 2008

Tarantella a Ceglie

Un rito per la guarigione dei tarantolati nel territorio di Ceglie consisteva nel preparare una scenografia idonea ad individuare i mali da cui erano posseduti.
Si disponevano in una stanza, una serie di fazzoletti e fettucce di svariati colori appesi a dei chiodi e che sostituivano il male da individuare. Si iniziava quindi a suonare la pizzica con gli strumenti tradizionali fino a quando la vittima entrava in trance e si dirigeva verso il fazzoletto del colore che in quel momento la ossessionava. Lo strappava dal chiodo e nella frenesia lo riduceva in pezzi. Solo allora si svegliava dallo stato ipnotico spesso guarendo dal male che la affliggeva.
Una tecnica di guarigione dai mali, o geni possessori, che ha delle affinità con il coribantismo.
Con il termine "coribanti", nell'antica Grecia, venivano indicati, sia i geni associati alla Grande dea Madre dell'Asia (Cybele) sia i sacerdoti di questa divinità ed i guaritori, uomini e donne, che curavano le "vittime" dei coribanti con uno specifico incantesimo rituale.
Questo incantesimo rituale comprendeva una diagnostica musicale e una danza.

venerdì 28 marzo 2008

Ipotesi sulla tarantella

... Questa danza è quasi esclusivamente di uso popolare, appartenente ad ambienti contadini, e pare abbia acquisito la sua caratteristica a Taranto nel periodo della Magna Grecia. Stando al periodo in cui il tarantismo è approdato e si è sviluppato nel nostro territorio, trarrebbe le sue origini da quelle teorie che elaborò la scuola pitagorica che si riformò, nel capoluogo ionico, dopo che Pitagora (Samo 580/570-Metaponto 497 a.c.) si ritirò da Crotone a Metaponto, costretto da una congiura. Queste teorie che i filosofi tarantini Archita, Aristosseno e Clinia diffusero ed elaborarono ulteriormente, sostenute dal fatto che essi furono non solo dei teorici promulgatori della qualità risanatrice della musica ma sperimentavano anche con la pratica tali teorie, dichiaravano la musica elemento vivificante dell'essere umano ed equilibratore cosmico nel rapporto Amore–Anima-Armonia. Gli studi pitagorici, oltre ad aver fornito la musica di intervalli secondo calcoli matematici conoscendo bene l’uso del monocordo, fu utilizzata largamente a fini terapeutici. Pitagora usava la musica come rimedio terapeutico. Aristosseno, curava malati di sciatica, l'eccitazione provocata dal vino e sosteneva che l'aulos e la cetra fossero particolarmente adatti a moderare i costumi ed a salvaguardare il buon governo della città. L’utilizzo catartico della musica investiva dunque nel pitagorismo la sfera del pathos nella sua triplice valenza psichica, somatica e morale. Dal punto di vista della psicologia umanistica questa teoria assume un significato ancora più importante in quanto vi si intravedono nella pratica terapeutica, condotta attraverso l'arte, la musica e la filosofia (quest'ultima intesa come generatrice di tutte le scienze ed arti). Pitagora filosofo, terapeuta, matematico ed astronomo sosteneva la teoria che tutto il creato fosse impostato su armoniche e proporzioni e che la via dell'uomo verso la conoscenza e la saggezza passasse attraverso la consapevolezza di tali proporzioni. Bisognava essere all'unisono con l'universo con l'armonia delle sfere. A Taranto di conseguenza fiorì una straordinaria cultura musicale. La musica era il mezzo elettivo per attivare tale consapevolezza interiore e per innescare processi di crescita nell'uomo. Attraverso la musica e tutte le sue componenti (ritmo, melos, danza etc) l'uomo raggiungeva la situazione estatica che gli permetteva di vibrare all'unisono con gli dei. L'equazione estasi-benessere è alla base della teoria-pratica dell'Ontosofia Psicosomatica e Umanistica (metodo di cui è ideatore il dott. Palmirotta membro dell'AHP (Association for Humanistic Psychology) www.ontosofia.it. E’ fuori discussione che da queste teorie sia scaturita la trasformazione della musica e della danza da scopo orgiastico delle epoche preelleniche a scopo terapeutico. La tradizione della musica risanatrice, nell'area di Taranto, si è mantenuta inalterata attraverso i secoli, congiuntamente all'uso delle danze dionisiache. Si può desumere, quindi, che da queste teorie, dato il duplice scopo, ludico e curativo, derivi la taranta... (continua).

mercoledì 26 marzo 2008

Mi sorge un dubbio


Se il piano regolatore prevede l'espansione a sud-est della città, come saranno tutelati i beni archeologici (o quel che ne rimane), in quella zona, dall'invasione del cemento?
Mi auguro che la risposta non sia ovvia, considerando tante altre scelte, più o meno scellerate, del passato prossimo e remoto.



Paretone messapico


paretone e camminamento messapico

venerdì 21 marzo 2008

mercoledì 19 marzo 2008

Non svegliate il can che dorme...

...o che fa finta di dormire.


Leggende paesane?

Proposta - Se mi dai una mano ad essere eletto,  ti prometto che ci saranno per te cose grandiose, straordinarie.
Risposta - Ti propongo il contrario per una volta e non ti chiedo cose straordinarie. Mi bastano cose anche normali, lecite, che spesso mi spetterebbero di diritto ed io prometto che ti aiuterò ad essere eletto.

"Famo a fidasse" diceva Nino Manfredi nel film "Nell'anno del Signore".
Le promesse sono sacre o sbaglio?
A meno che vale l'insegnamento di Cicerone: "Promettete, promettete molto, senza scrupoli, tanto promettere non costa niente".

Una nuova voce da Ceglie

domenica 16 marzo 2008

In simbiosi con la natura


tra i fiori di limone (foto di Pino Santoro)


spicchio di luna tra i limoni ( foto di Pino Santoro)

sabato 15 marzo 2008

Buona Domenica


Creare bonsai è uno straordinario modo per rilassarsi contro il logorio della vita moderna.
Quello nella foto è un bonsai di melocotogno alto circa 30 centimetri. La chioma e nella fase iniziale di sviluppo dopo il riposo invernale. Tra due mesi sarà davvero bello.
Sono in preparazione anche bonsai di olivo e melograno.


Realizzazione di Pino Santoro

venerdì 14 marzo 2008

Vuota e sbiadita

Anche un V2-Day può servire a rianimarla e dimostrare che Piazza Plebiscito è stata realizzata per tutti i cittadini.


 




Piazza Plebiscito



Per secoli questo spazio è stato conosciuto come “Piazza della croce”. Dove sorge la Piazza era di proprietà della famiglia "Nannavecchia" e da questa fu ceduta al "Capitolo di Ceglie" e da questo al Comune per costruire una moderna Piazza. Nel 1879 durante la Rivoluzione Napoletana, fu innalzato l’Albero della Libertà da "Giuseppe Antelmi", "Domenico Carlucci", "Rocco Urgesi" e "Giacomo Greco" quest’ultimi trucidati dai "Borboni". Al centro si trova la torre del Pubblico Orologio, innalzato dai maestri "Gioia" ed "Elia", su progetto dell’ing. "Paolo Chirulli" (1890-1893). Sorgono anche importanti palazzi: "Chirico", anticamente La marina, con lo splendido balcone in pietra locale (XVIII sec.); "Nannavecchia" del 1747, "Lezzi" del 1934 su una preesistente casa settecentesca.




www.infoceglie.net/citta.asp



domenica 9 marzo 2008

Evoluzione dello stemma araldico


Stemma attuale di Ceglie Messapica




Fin dall’antichità la torre è stata il simbolo della città, infatti, lo stemma araldico antico (1100-1800) di Ceglie è “un castello aperto con sopra tre torri aperte”; con la abolizione della feudalità comparve una “torre aperta con sopra tre merli e su quello centrale un’aquila imperiale a volo spiegato con testa rivolta a sinistra” .; nel 1864, fu adottato uno stemma araldico rappresentante un guerriero messapico. L’emblema in questione lo si trova stampigliato, sul basamento dei pali di illuminazione in Piazza Plebiscito, lo si può ritrovare anche nella rampa delle scale d’ingresso della vecchia Questura di Brindisi, ora uffici Amministrativi della Prefettura – Piazza Dante. Sui muri di quelle scale sono riprodotti tutti gli stemmi araldici dei venti comuni componenti la provincia di Brindisi, istituita il 7 gennaio 1927.


Il 6 marzo 1953, infine, con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri fu assegnato l’attuale blasone: “torre aperta con sopra tre merli”, il quale, tra l’altro risulta anche errato. La merlatura in argomento è del tipo ghibellino, profilo superiore intaccato a coda di rondine, ovvero a “V”, doveva essere, invece, del tipo guelfo, profilo superiore rettilineo. Guardare la torre per rendersene conto.


Il Gonfalone fu assegnato con DPR il 24 marzo 1981. Con DPR n°4136 in data 13 settembre 1988, infine, Ceglie Messapica fu autorizzata a fregiarsi del titolo di CITTA’.


Su quella torre, nel 1874, fu riportato un punto trigonometrico con le coordinate geografiche di quel sito : 40° 38’ 43” lat. Nord. - 17° 31’ 00” long. Est, le quali non sono altro che le coordinate della nostra Città.


Da "Storia di Ceglie Messapica" di Pasquale Elia

mercoledì 5 marzo 2008

Italiani in cambio di carbone

Minatore cegliese in Belgio nel 1951
Il famoso accordo del 1946 non era il primo protocollo siglato tra Italia e Belgio per l'impiego di minatori italiani. Un'analoga intesa era infatti già stata firmata tra i governi dei due Stati nel più lontano 1922. Ma la vera e propria “battaglia del carbone” fu lanciata soltanto dopo la seconda guerra mondiale. Il Belgio disponeva, infatti, di ingenti risorse minerarie, ma di manodopera insufficiente. L'Italia, al contrario, aveva urgente bisogno di carbone e si trovava in una situazione molto difficile per quanto riguardava il lavoro. La disoccupazione e la miseria rendevano insopportabile la vita alla maggior parte della popolazione, soprattutto dei ceti sociali più deboli. L'industria nazionale era in ginocchio e le campagne, dal Veneto alla Sicilia, versavano in condizioni di estrema povertà e indigenza. Per milioni d'italiani la via dell'emigrazione era la sola prospettiva di riscatto umanamente possibile.
il 23 giugno 1946
Italia e Belgio firmarono quindi un accordo che prevedeva la destinazione di cinquantamila operai italiani alle miniere del Belgio. In cambio, il Belgio s'impegnava a vendere all'Italia, mensilmente, un minimo di 2500 tonnellate di carbone ogni 1000 operai inviati.
Per convincere gli operai italiani a lasciare il proprio paese,
apparsero un po' in tutta Italia allettanti manifesti rosa della Federazione Carbonifera Belga, che presentavano unicamente gli aspetti positivi e vantaggiosi di questo lavoro: salario medio giornaliero, assegni familiari, ferie, premi di natalità, alloggio e carbone gratuiti, ecc.


Il manifesto si concludeva con un invitante appello:


Approfittate degli speciali vantaggi che il Belgio accorda ai suoi minatori. Il viaggio dall'Italia al Belgio è completamente gratuito per i lavoratori italiani firmatari di un contratto annuale di lavoro per le miniere. Il viaggio dall'Italia al Belgio dura in ferrovia solo 18 ore. Compiute le semplici formalità d'uso, la vostra famiglia potrà raggiungervi in Belgio”.


Il viaggio da Milano durava in pratica due giorni. Si partiva da Milano il lunedì mattina, si viaggiava tutto il lunedì e si arrivava in Belgio nel pomeriggio del martedì. Circa mille persone viaggiavano su ogni treno. Per quasi tutti era il primo viaggio di una certa importanza, o il primo in assoluto, un viaggio decisamente poco confortevole, specialmente quando si attraversava la Svizzera. Al passaggio per la Svizzera, infatti, per un certo tempo i vagoni venivano chiusi e il treno proseguiva senza nessuna fermata fino a Basilea, per non rischiare di perdere qualche passeggero lungo il tragitto. Le ragioni erano comprensibili: considerato che la Svizzera era una meta ben più ambita del Belgio, anche perché più vicina, molti sognavano di scendere e di fermarsi lì. Dopo Basilea i vagoni potevano di nuovo essere aperti, poiché nessuno voleva scendere in Francia. Le visite mediche d'idoneità al lavoro venivano sbrigativamente svolte durante il viaggio. Per il resto, sui treni non c'era praticamente alcun tipo d'assistenza.
Alla stazione centrale di Bruxelle
s, lunghi convogli ferroviari scaricavano gli uomini, stanchi, con i loro abiti semplici e con pochi effetti personali al seguito, molti dei quali non fecero mai ritorno al proprio paese.
A Bruxelles cominciava lo smistamento verso le differenti miniere, tenendo conto, nei limiti del possibile, delle affinità familiari. Gli interpreti e i delegati delle miniere regolavano
alcune formalità essenziali e qualche problema personale.
In autobus o ancora in treno, gli uomini venivano
poi accompagnati nei loro “alloggi”: le famose cantines, baracche insomma, o addirittura nei famigerati hangar, gelidi d'inverno e cocenti d'estate, veri e propri campi di concentramento dove pochi anni prima erano stati sistemati i prigionieri di guerra.


Né animali, né stranieri...
La mancanza di “alloggi convenienti”
, previsti dall'accordo italo-belga, impediva alla maggior parte dei minatori il ricongiungimento con la propria famiglia. Trovare un alloggio in affitto era infatti quasi impossibile all'epoca. Spesso, sulle porte delle case da affittare i proprietari scrivevano a chiare lettere “ni animaux, ni étranger”: né animali, né stranieri.
È
dunque facile immaginare che l'integrazione dei lavoratori italiani in Belgio non era, in quegli anni, facile. Anche nelle miniere, dove peraltro le condizioni di lavoro erano particolarmente dure e insalubri, i rapporti con i minatori belgi non erano facili, poiché gli italiani estraevano in media più carbone e si pensava che fossero, per conseguenza, pagati meglio. La solidarietà tra paesani rendeva il peso del lavoro e delle condizioni di vita un po’ più sopportabile. I minatori italiani provenienti dal Veneto, dalla Sicilia, dall'Abruzzo, e così via, avevano infatti tendenza a riunirsi tra di loro e a parlare in dialetto, secondo la regione e il paese di provenienza.
I
più giovani, nella maggioranza dei casi, non avevano alcuna formazione. Il mestiere di minatore s'imparava quindi facendolo, e imitando i più anziani. All'inesperienza di molti si aggiungevano le scarse misure d'igiene e di sicurezza. Tra il 1946 e il 1955, quasi 500 operai italiani trovarono così la morte nelle miniere belghe, senza contare il lento flagello delle malattie d'origine professionale.
La più pericolosa di queste era la silicosi
, causata dalle polveri della miniera che, depositandosi sui polmoni, creava insufficienze respiratorie.
I primi sintomi consistevano in una forte tosse, che il più delle volte si manifestava nel primo anno di lavoro, per poi arrivare al punto in cui si “
sputavano i polmoni”, come racconta un nostro assistito ex-minatore. Questi uomini, dunque, prima barattati poi sfruttatti e danneggiati, finivano per essere abbandonati a se stessi in gravi condizioni di salute. Terribilmente grotteschi erano anche i rimedi a disposizione dei minatori, tante volte frutto delle dicerie popolari, quali ad esempio l’ingoiare grandi quantità di burro oppure bere tanto latte. Come emerge da alcuni racconti e testimonianze dirette, c’era anche chi il burro lo cospargeva sul proprio viso per non rovinarsi la pelle una volta sceso nel pozzo.
L’alta probabilità di contrarre la malattia era anche dovuta all’infernale contratto che obbligava a lavorare per un minimo di 5 anni solo ed esclusivamente nella miniera, pena l'espulsione dal territorio belga.
Nel frattempo, g
razie ai nostri emigrati, la produzione di carbone nelle miniere belghe aumentava vistosamente, con ripercussioni positive su una serie di altre attività, come le industrie siderurgiche e metallurgiche, le vetrerie, le industrie di apparecchiature elettriche e di materiale refrattari. Notevole, quindi, l’apporto dei nostri lavoratori allo sviluppo del territorio belga. Il tutto, a costo d'indescrivibili sacrifici.
In questo contesto, un formidabile fattore d'integrazione
fu l'associazionismo sindacale, e in particolare il riconoscimento del diritto di voto agli immigrati stranieri per l'elezione delle cariche sociali, che venne introdotto per la prima volta in Belgio nel novembre del 1949, anche se con molte restrizioni. Benché inizialmente il diritto di voto fosse soltanto passivo, e non consentiva quindi di essere eletti, questa prima forma di partecipazione alla vita interna all'azienda, fino a quel momento sconosciuta alla quasi totalità dei nostri lavoratori, rappresentò un formidabile esercizio di democrazia e un'occasione importante per iniziare a partecipare alla vita politica e sociale belga.

martedì 4 marzo 2008

Ceglie Messapica e dintorni

 

Silenzio, per favore




Pubblicato da dejudicibus martedì, 04 marzo 2008, 00:27, su Blogfriends



Per chi oggi dal pulpito grida ancora che bisogna far qualcosa, e non si capisce perché, dato che è chi sta su quel pulpito che dovrebbe farlo. In memoria di chi ogni giorno muore perché non sa che potrebbe non farlo, perché nessuno gli ha insegnato o lo ha aiutato a non morire.